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Non chiedere l'autografo all'assassino

di Andrea Saviano
finalista al concorso "Il giovane Holden" 2009


Chi io sia, è un po' difficile da dire. Posso solo affermare che ero un bambino particolarmente tranquillo, affetto solo da un banale problema di sonnambulismo.

Già da neonato mi capitavano questi attacchi, ma allora era difficile per mia madre notare questi segnali.

Papà quando seppe della cosa ci rise sopra nonostante mia madre avesse un'aria seria nel raccontargli l'episodio. Non che fosse un padre snaturato, solo che per lui, di professione metronotte, era come se avessi superato un test del DNA.

« Tutto suo padre! » Aveva esclamato ridendo.

« Sei un irresponsabile, non ti rendi conto della gravità della cosa, » era stata la risposta stizzita di mia madre. Dopotutto lui soffriva d'insonnia e gli pareva una cosa normale che anche suo figlio ne fosse affetto, ma c'è una leggera differenza tra l'insonnia e il sonnambulismo.

Mia madre, cattolica osservante e di professione infermiera, nei primi anni della mia infanzia mi portò in pellegrinaggio presso tutti i più autorevoli neurologi prima e santuari poi.

Non ero affetto da problemi di veglia notturna come mio padre, né di deambulazione in stato di dormiveglia, quello che io avevo e ancora ho era differente e si chiama schizofrenia.

Di comune a mio padre ho che mi bastano solo tre ore di sonno profondo per svegliarmi l'indomani perfettamente riposato, quindi in questo non si sbagliava.

Anche il profondo senso che ho della giustizia probabilmente l'ho ereditato da lui.

Da piccolo ero piuttosto gracile, mentre mio padre era una montagna, ma non so se questa fosse una percezione dovuta dalla mia tenera età o si trattasse realmente di ciò. Rammento che era molto alto e parecchio più robusto della media delle persone. Mio padre lo ricordo con il fisico di alcuni lottatori di wrestling americano. Lo ricordo così male per un semplice motivo, perché morì ammazzato quando avevo solo cinque anni. Lo vidi uscire dalla porta di casa per non fare più ritorno e non perché litigasse di frequente con la mamma per il mio “problema” di salute, ma perché qualcuno gli piantò due proiettili nella schiena.

Mamma litigava sempre con papà, anche questo era un ricordo forte dei primi anni della mia vita e rammento che era particolarmente “cattiva” con lui, perché non si dimostrava preoccupato del mio fisico eccessivamente gracile, perché non era minimamente turbato dal fatto che fossi affetto da sonnambulismo – questa era la diagnosi all'epoca – e, infine, non reputava la famiglia così importante da prendere in considerazione un lavoro meno rischioso.

Nonostante il fisico gracile, crebbi forte e sano, un po' com'era accaduto a mio padre prima di me. Il fisico mingherlino che madre natura aveva donato a entrambi aveva condotto i nostri genitori a farci praticare del sano sport e alla fine eravamo diventati non solo alti di statura, ma anche muscolarmente più dotati della media.

Tra la mia infanzia e la mia adolescenza, i medici avevano detto a mamma che della sana attività fisica non solo mi avrebbe irrobustito, ma spossandomi m'avrebbe guarito dal sonnambulismo. Purtroppo il mio problema non si chiamava sonnambulismo. Fu nel periodo della pubertà che sentii per la prima volta la parola: schizofrenia. I tracciati del mio encefalogramma, durante i presunti attacchi di sonnambulismo, erano radicalmente differenti da quelli da sveglio. In realtà ho due cicli di tre ore di sonno, tra le quali vivo due distinte personalità.

Vedova e con un figlio con gravi problemi psichici, mia madre imboccò ben presto la strada in discesa della depressione. Una strada prima dolcemente inclinata e poi molto simile, anzi troppo, a un precipizio.

L'ultimo ricordo che ho di lei è quello di una persona inebetita dagli psicofarmaci, una donna debole e fragile che divenne la facile preda di un balordo. Non posso dire d'averla veduta, perché il volto era riverso sul pavimento di casa e intorno al corpo c'era un'immensa pozza di sangue simile a una macchia di Rorschach che a me evocò il profilo di un demone. Lo scrivo in cifre: 97, è il numero di coltellate con cui l'avevano massacrata.

Anche scritto in lettere: novantasette, è un numero impressionante e porta chiunque sia dotato di buon senso a un unico e irrisolto quesito: « Chi mai può ammazzare un essere umano con tanto cieco furore? »

La polizia, impersonata da un agente che rammento come vecchio e grasso, affermò: « Un drogato, quei maledetti per una manciata di spiccioli cosa non sarebbero capaci di fare! »

Non so se quell'affermazione corrispondesse al vero, ma rammento che il maialino con i risparmi che custodivo in camera era stato rotto e gli spiccioli in esso contenuto erano spariti.

Si dice che ognuno è figlio della propria storia e in fondo è vero. Tutti sono attratti da ciò che li ha spaventati e sono intimoriti da ciò che li attraeva, perché la paura vuole essere aggredita per non trasformarsi in terrore e a tutto sappiamo resistere fuorché alle tentazioni.

È così che nascono gli eroi e i santi, in quanto a me... non so se sono l'uno o l'altro, entrambi o nessuno dei due, so solo che i giornali non riescono a descrivere ciò che io sia e, sinceramente, nemmeno io so più chi o cosa io sia.

Posso solo affermare che la letteratura è piena di personaggi come me, ma ribadisco il termine: personaggi, non persone. Ad esempio, Dr. Jekyll e Mr. Hyde o il Dr. Barner e Hulk sono i tipici prototipi del rapporto che intercorre tra l'uomo e la bestia che v'alberga dentro, un rapporto solitamente basato sulla presenza o l'assenza di virtù.

Prima di riportare le mie attuali vicende, per non risultare partigiano nella narrazione, preferisco farvi avere una panoramica neutrale sulle mie imprese o, come le definiscono i miei detrattori, misfatti.

Se la vostra posizione morale rispetto ai delinquenti è quella per cui anche il più efferato assassino meriti una seconda possibilità fatta di riduzione di pena, di buona condotta, di arresti domiciliari e infine d'indulto della pena, allora vi collocate nella medesima area dei giornalisti suoi – cioè dell'altro me – detrattori.

Se per voi invece un delinquente incallito, specialmente se affetto da assassinio cronico e recidivo, è un pericolo latente per la società e l'occasione della legittima difesa può essere una buona opportunità per risparmiare i costi di una giustizia troppo garantista, dai tempi lunghi e imperfetta, allora vi collocate insieme ai giornalisti che esaltano le sue scorribande notturne. Già, perché l'altro me si sveglia quando sulla città calano le tenebre.

Il buio è l'ambiente ideale per i topi di fogna, per gli scarafaggi e molti altri esseri la cui infamia è tanto grande da fargli provare la vergogna di farsi vedere alla luce del giorno, ma fortunatamente la notte è anche il momento ideale dei loro acerrimi nemici.

Non vi annoierò ulteriormente con le mie vicende. Io sono un uomo tranquillo. Una laurea tecnico/scientifica. Un buon posto di lavoro conquistato e mantenuto con molto scrupolo e gran coscienziosità. Molti, brevi amori che non sono mai sopravissuti abbastanza per dar luogo a una moglie. Nessun figlio, almeno per quel che so.

L'altro me è un qualcosa – più che un qualcuno – che la Marvel avrebbe forse definito come un supereroe mascherato, non so se sia almeno un eroe, di sicuro non ha nessun superpotere e non indossa la maschera, anche se si è dotato di qualche astuto artifizio.

Nella grande tradizione dei fumetti si tratta solitamente di disadattati senza timore della morte né del dolore, affetti da schizofrenia e in questo l'altro me ci cade a pennello.

* * *

Buonanotte a tutti coloro che a quest'ora tarda non riposano o perché non possono dormire o perché non riescono a prendere sonno. Io sono come la falena, una strana creatura dalla breve vita, ogni notte esisto solo per un paio d'ore, ma per fare ciò che devo portare a termine mi sono sempre sufficienti.

BANG! Qualcosa mi colpisce dietro la testa.

Non turbatevi delle mie condizioni, sono abituato a prenderle, come tutti i buoni incassatori, ma soprattutto sono abituato a darle senza crogiolarmi di un effimero successo. Vi fermo subito se la vostra fantasia sta correndo verso una direzione sbagliata, non sono Batman, lui appartiene ai fumetti, non alla vita reale.

Certo, un tubo di ferro sbattuto con forza sulla testa non lo raccomanderei a nessuno che non indossasse, come me, un leggero ma efficace elmetto protettivo.

Mi alzo, interrompendo la risata di quell'infelice. Lo atterro. Gli metto un piede sulla schiena e gli tiro le braccia fino a fargliele uscire dalle spalle. Gli slogo la mandibola, fino a che esce dalla sua sede naturale, e faccio la medesima cosa alle gambe.

Ci saranno almeno venti centimetri di differenza tra lui e me. Me n'accorgo quando gli stringo le mani al collo e vedo i suoi piedi penzolare a mezz'aria.

Penso a coloro che intervistano i serial killer e che chiedono gli autografi agli assassini. Provo uno strano imbarazzo per loro.

« Pietà... » mormora in un modo quasi incomprensibile.

Ha ragione, non posso strozzarlo cosi a mani nude e troppo lungo e per il suo cervello, finalmente e tardivamente pensante, è troppo doloroso, per cui con un gesto rapido e violento gli spezzo il colo.

CRACK!

Adesso non mormora più. Adesso non soffre più.

Le mie mani mollano la presa.

TONF! È il rumore che fa il suo corpo sull'asfalto.

Non riesco a provare vergogna, non riesco nemmeno a fingerla. Provo pietà, ma non per lui. C'è il corpo di una persona con uno strano e largo sorriso lì vicino. Una donna che quell'uomo ha prima picchiato, poi violentato e infine sgozzato aprendole la gola da orecchio a orecchio.

Ripeto, come fosse una cantilena, un cinico ritornello: « giace all'ombra di un cassonetto, sembra assopita come un angioletto, ma ha un solco lungo il viso, come una specie di sorriso. » Sull'asfalto il sangue della donna ha disegnato strani schizzi che richiamano le macchie di Rorschach e a me rammentano il profilo di strani demoni.

Sono arrivato tardi, troppo tardi e di questo mi vergogno.

Non ho armi da fuoco. Le detesto per il chiasso e i bagliori che fanno. Non s'addicono a me e alla notte, entrambi per indole siamo taciturni. Inoltre, provo un particolare piacere a fare giustizia con le mie nude mani. Li tramortisco con particolari artefici, ma li finisco sempre con le mie mani fissandoli negli occhi per vedere se almeno al limitare della vita si pentono della loro esistenza, ma ciò non accade mai. Vedo lo sbigottimento iniziale che si trasforma lentamente in terrore quando si rendono conto di cosa gli sta per accadere. Noto la supplica di un immeritato perdono, ma nemmeno l'ombra di un pentimento.

Spesso mi sono chiesto cosa farei se intravedessi il pentimento, ma poi penso che deciderei al momento e, comunque, ciò non è ancora accaduto.

Non chiedetemi quante di queste azioni – buone o cattive che siano – io abbia compiuto, se da un canto non me ne vergogno, dall'altro non me ne vanto.

Anche oggi ho incontrato il demonio. Forse l'ho vinto, se albergava nella bestia che ho ucciso, o forse lui ha vinto, se è riuscito ancora una volta a ridurre me come una bestia.

« Il bisogno di giustizia, figlio mio, è una sete che la vendetta non placa, anzi l'acuisce, » diceva mio padre. Aveva ragione.

Mi chiedo se Dio, nel giorno del giudizio, potrà mai perdonarmi per ciò che faccio. Poi sussurro: « Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori, » no, non potrà mai perdonarmi, allora: « non indurci in tentazione, ma liberaci dal male, amen. »

Devo andare, è tardi. È tardi per me, perché tra venti minuti scadranno le mie sole due ore d'esistenza e devo correre a casa. È tardi per quella povera signora, che l'altro me scoprirà essere la madre di due figli che invano quella notte l'hanno attesa. Tardi per lui, il solito balordo, che verrà scoperto, insieme alla sua vittima, da un vecchio insonne che era a passeggio con il suo cane. Un attempato agente di polizia ormai in pensione che, intervistato dai giornalisti, affermerà: « Un drogato, quei maledetti per una manciata di spiccioli cosa non sarebbero capaci di fare! »

Giustizia è fatta? Non lo so e non m'interessa, io sono il boia, non il giudice e spesso mi sono chiesto quanto sottile sia il confine tra un boia e un omicida.

« Dormite bambini, coscette di pollo... » mormoro come fosse uno stupido ritornello. Dormite e non chiedetemi un autografo, non chiedete mai l'autografo ad un assassino, perché non c'è nulla da imparare da noi. I notiziari della mattina stanno trasmettendo l'intervista all'ex-poliziotto. Per tutti è l'alba. Per me è semplicemente troppo tardi, ormai sto già dormendo. Per l'altro me, invece, è ancora troppo presto, tra poco suonerà la sua sveglia per farlo alzare e, come ogni mattina dal lunedì al venerdì, andare a lavorare. Le persone oneste lavorano cinque giorni su sette, la delinquenza invece non si riposa mai.

Ancora una volta giunge l'aurora e con lei l'alba. Io mi reco a letto mentre il notiziario del mattino mi dice che qualcuno era già pronto ad ammazzare di nuovo. Un povero travestito che oggi non solo non ho salvato, ma nemmeno ho vendicato. Una creatura debole e fragile, piena di problemi – come me – che non avrebbe fatto male ad una mosca. Non commento chi lui fosse, se quello che faceva fosse giusto o se fosse sbagliato il suo modo d'essere femmina quando era nato maschio. So solo che questo è un mondo fatto di prede e di predatori e quando si nasce deboli il proprio destino è già segnato dalla culla. È arrivata l'alba! Vado a dormire. Sognerò uno dei miei tanti incubi.

Per assopirmi mi canto una ninna nanna ripetendo, come fosse un'infantile cantilena, un cinico ritornello: « La chiamavano bocca di rosa, metteva l'amore, metteva l'amore. La chiamavano bocca di rosa, metteva l'amore sopra ogni cosa. »

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